Away from Linkedin and social media
Non ho mai avuto un ottimo rapporto con i social. Ora sento sia il momento di dire basta. Anche con LinkedIn.
È tanto che me lo dico deluso dall’ennesima notifica.
L’ennesima, inopportuna, tentata vendita da parte di chi non ha investito neppure un minuto per capire chi sono e di cosa si occupa la mia azienda.
L’ennesima campanellina lampeggiante che mi informa che quel contatto, che pure mi sembra un profilo interessante, ha appena condiviso le sue recenti scoperte sul modo corretto di poggiare lo smartphone sul tavolo, oppure l’ennesima lezione che i figli adolescenti gli hanno impartito inaspettatamente a cena.
L’ennesima riflessione approfondita su cosa imparare da Sinner. O su cosa imparare, al contrario, dagli errori e dalla caduta mediatica della Ferragni.
L’ennesima, l’ennesima. L’ennesima.
Sì, ripetitivo e a tratti irritante.
È tanto che ci penso. È tanto che questo tipo di post e notifiche mi portano a pensare a quale sia davvero il valore di continuare a restare sulla giostra, farci un altro giro, o fingere, da giù, meraviglia per quelli che sono sopra e sembrano divertirsi come matti.
Il motivo principale per il quale alla fine ho deciso è questo. Ed è molto semplice: non ho più tempo. O meglio ho troppo rispetto per il mio tempo e ho bisogno di ritrovare il giusto ritmo nel mio flusso di vita e di lavoro, limitando interruzioni e distrazioni.
E il ritmo non è il tempo ma “”sta” nel tempo.
“Riccardo, era questo che sognavamo?”
Nell’estate del 2016 ero in vacanza in Florida. Una serata estiva, una di quelle in cui, soprattutto se sei in vacanza, hai voglia di passeggiare senza meta, guardando qua e là, perdendo di vista i tuoi stessi pensieri. Accanto a me mi resi conto di qualcosa di strano, a cui non trovavo spiegazione immediata. Tanti ragazzini, soli o in gruppo, concentrati su un unico soggetto. E adulti, anche questi distratti, quasi rapiti. Tutti con gli occhi incollati allo smartphone come se il mondo non esistesse. Come se non importasse altro, a parte ciò che si celava oltre lo schermo.
Pensai ad una notizia diffusa, o a qualche allarme, ma la verità superava di gran lunga ogni più immaginifica ipotesi. Pokemon. Ero capitato nel bel mezzo di un’epidemia di febbre da caccia al Pokemon. Ricordo di aver mandato immediatamente una foto ed un messaggio al mio amico Riccardo Luna. “È realmente questa, la società che ci proponevamo di realizzare con la trasformazione digitale?”
Nel 2009 proprio con Riccardo eravamo stati protagonisti di un “grido d’allarme”. Internet si presentava al mondo pieno di speranze e opportunità, l’Italia sembrava perdersele tutte. Così, su iniziativa di un gruppo di amici e professionisti, tra cui Francesco Sacco, l’indimenticabile Marco Zamperini, Stefano Quintarelli, Gianluca Dettori, Peter Kruger e altri, avevamo comprato una pagina intera dal Corriere della Sera per chiedere al Governo di fare sul serio con la digitalizzazione del Paese.
L’Estate in Florida, per strada, circondato da un esercito di zombie con gli occhi sullo smartphone, mi fece dunque vacillare. Ripensare all’entusiasmo degli albori di Internet, alle mirabolanti promesse, e ai risultati che invece si presentavano completamente diversi e poco prevedibili.
Oggi come allora, mi sento nuovamente “tradito”. O forse sarebbe meglio dire “deluso”, o ancora meglio “non interessato” a quanto questa internet, ormai sinonimo di “social”, abbia da offrire.
La riflessione è quella che mi sono trovato a fare nel corso degli anni e della quale ho parlato nel mio ultimo libro, Ibridomania: bisogna avere il coraggio di chiedersi e decidere se davvero la tecnologia, al pari del fuoco di Prometeo, possa servire a liberarci, o se invece sia destinata ad imprigionarci in una prigione diversa.
Senza giudizio o rancore, “vengo in pace”
Ovviamente sul restare o fuggire dai social, ci sarebbe molto altro da dire.
E negli anni, sino ad oggi, moltissimi hanno infatti detto tantissimo.
A cominciare da Jaron Lanier, nel suo “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”. Un saggio ficcante, datato “lontano 2018”, dove svelava alle masse quella che spiegava fosse “la macchina della fregatura”
A sta per Acquisizione dell’Attenzione che porta alla supremazia degli stronzi.
B sta per Buttare sempre un occhio a quello che fanno gli altri.
C sta per Contenuti ficcati a forza nella testa della gente.
D sta per Dirigere i comportamenti delle persone nel modo più subdolo possibile.
E sta per Entrate economiche raggiunte permettendo ai peggiori stronzi di fregare tutti surrettiziamente.
F sta per False persone e False masse.
In tempi più recenti, ricerche firmate da autorevoli studiosi mettono in guardia sui sistemi con i quali i social sono progettati: per farci rimanere dentro, distogliere l’attenzione da ciò che conta davvero, creare dipendenza, allontanarci dalla realtà, esasperare continuamente, per via di come sono concepiti gli algoritmi, la diffusione dell’esagerazione, degli eccessi della polarizzazione.
Altro tema di sempre crescente interesse riguarda poi la privacy (chi tutela cosa?), specie nel caso dei minori, e la responsabilità quando siamo dall’altra parte della barricata; come aziende e come manager, è notizia recente ad esempio l’ammissione di “colpa” da parte di Zuckerberg: “nessuno dovrebbe subire ciò che hanno subito”, ha affermato di fronte un’infuocata udienza al Senato degli Stati Uniti d’America. Oggetto della discussione: l’impatto dei social media sugli adolescenti.
In questo caso, i brand, le aziende, che responsabilità hanno? Sono vittime o complici?
Sul tema social benefici/svantaggi e opportunità/rischi, si potrebbe continuare. Tuttavia non penso sia questa la sede opportuna. Anzi, per quello che riguarda il messaggio di queste righe, non serve proprio.
Il punto qui è che “vengo in pace”. I social media fanno ormai parte della nostra vita e del nostro lavoro, è un dato di fatto.
Così come va detto che non tutti, con buona pace di Jaron Lanier e del suo invito “abbandonate i social”, possono farlo davvero.
Oggi scelgo di allontanarmi dai social, prendere una pausa, selezionare con più attenzione i canali o forse abbandonarli del tutto e non tornarci più.
A dire il vero avevo già iniziato tempo. Oppure, si potrebbe dire, non avevo mai iniziato con grande convinzione: ho sperimentato Facebook, agli inizi, più o meno intorno al 2008. Me lo segnalò entusiasta un collega in Uk. Ma dopo un primo periodo di corsa a rintracciare vecchi amici, l’ho lasciato lì abbandonato. Più o meno stessa sorte per Instagram, aperto questo in pandemia dove qualcosa di nuovo era quasi sempre anche qualcosa di interessante. Anche con Twitter, adesso X, destino simile: iscrizione a Dicembre 2013, primi tweet, noia…
Con LinkedIn invece ci avevo speso molto più tempo. Per creare anche online un “presunto network”, per riflettere dei temi che mi stavano e stanno a cuore: la tecnologia, la cultura del lavoro, il management e la leadership.
Oggi dico basta anche a questo social.
Ma senza rancore.
Come sempre non c’è mai bianco o nero e, anche per i social, vale la pena ricordare le differenze (sempre più impercettibili) tra social e social, le sfumature, i rischi ma anche le opportunità.
Nel mio caso dunque nessuna sentenza. Nessuna crociata perlomeno.
Solo una personale valutazione costi/benefici.
Questione di tempo
In realtà non si tratta solo di tempo, nel senso di “tempo impiegato” o “tempo speso”. C’è qualcosa di più.
Di recente Oliver Burkeman lo ha messo in luce nel suo ultimo libro “Four Thousand Weeks: time management for mortals”.
“Ciò che forse non tutti hanno presente, invece, è quanto la distrazione sia profonda e quanto mini alla base i nostri sforzi di impiegare il tempo come desideriamo. Riemergendo da un’ora sprecata su Facebook, è normale pensare che il danno si limiti a quei sessanta minuti buttati via. Non è così. (...) Condiziona la percezione di ciò che importa, di quali sono le minacce da affrontare, di quanto siano corrotti i nostri avversari politici, eccetera; questi giudizi distorti si riflettono anche sul modo in cui impieghiamo il tempo offline. (...)
La questione, quindi, non è solo che i dispositivi digitali ci distraggono da ciò che è più importante, ma che cambiano la definizione di «importante».
Nelle parole del filosofo Harry Frankfurt, compromettono la nostra capacità di «volere ciò che vogliamo volere.»
È questo il motivo per il quale, tornando all’inizio di questa mia riflessione, ci troviamo non soltanto invasi da post su Sinner, la Ferragni, il caso mediatico del giorno, che non soltanto ci rubano tempo ma ci portano in una bolla dove tutto questo appare importante, e “degno del nostro tempo”.
Ecco, ci ho messo forse un po’ troppe parole per spiegarlo ma è questo il motivo della mia decisione di lasciare i social media: è una questione di tempo, di ritmo e del valore del tempo.
Jap Gambardella l’aveva detto meglio: “La più sorprendente scoperta che ho fatto è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!"
E adesso?
Sento di avere ancora cose da dire e se ne avrete voglia potrete seguirmi qui, in una nuova newsletter, scegliere di tanto in tanto di spendere qualche minuto insieme (quando avrete tempo e con i vostri tempi) per riflettere di lavoro, managerialità e leadership.
Qui invece, il mio sito web, dove sto cercando di mettere in ordine tutto ciò che ho pensato e fatto negli ultimi anni.
Take it easy
i social sono parte della nostra vita è vero; sono fonti incredibili dalle quali possiamo attingere enormi quantità di informazioni che dovremmo utilizzare correttamente ed interpretare in maniera critica. Non dobbiamo mai dimenticare che i social vanno sempre usati in modo consapevole ed etico.