How Many More Times
Il tempo, il progresso, l'AI: "quante volte ancora?"
“How Many More Times” è un brano dei Led Zeppelin, ultima traccia dell’album di esordio. Otto minuti e ventotto secondi. Il brano più lungo del disco. Non il più famoso, ma con un’anima blues particolarmente potente – quel tipo di blues che non chiede permesso, entra e si siede.
Il titolo mi ronza in testa da settimane. Quante volte ancora.
Quante volte ancora dovremo assistere a convegni e dibattiti in cui ci raccontano di tecnologia “umano-centrica”? Quante volte ancora ci diranno che l’intelligenza artificiale non toglie posti di lavoro? Che i nuovi posti generati saranno più di quelli persi? Che bastano programmi di formazione per gestire la transizione? Che l’AI ci restituirà tempo?
Tutto sbagliato? No. Direi tutto fortemente correlato, tutto giusto nella forma. E forse privo di fondamenta nella sostanza.
Sono i cinque pilastri della narrazione rassicurante sull’AI. Li sentiamo ripetere a ogni convegno, in ogni intervista, su ogni palco. Hanno la forma della ragionevolezza. E l’effetto di un sedativo collettivo.
Tecnologia umano-centrica
Quando si parla di tecnologia umano-centrica si tende a definire tutte quelle tecnologie in cui viene semplificato l’utilizzo. L’umano-centricità viene ridotta a “user friendly”, spesso esclusivamente a un tema di interfaccia. UI.
Apri un’app, scorri col dito, ordini la cena in tre tap. Semplice. Intuitivo. Umano-centrico, ci dicono.
Ma la semplicità d’uso non spiega la complessità che si cela dietro un’azione. Non spiega come agisce davvero la tecnologia. Paradossalmente, la semplicità d’uso riduce la comprensione della tecnologia stessa. Più è facile usarla, meno capiamo cosa sta facendo con noi. Qual è il progetto di società che si cela dietro ad una trasformazione tecnologica?
Dietro quei tre tap c’è un algoritmo che ha imparato le tue preferenze, i tuoi orari, le tue debolezze. Ti conosce meglio di quanto tu conosca lui. Ti profila mentre ti semplifica la vita.
E dall’altra parte dello schermo? Un rider su una bici scassata, sotto la pioggia, che pedala per consegnarti la cena in trenta minuti. Lui non è al centro di nulla. È il costo nascosto della nostra comodità. L’umano-centricità, a quanto pare, dipende da quale umano sei.
Non c’è nulla nella UI che renda umano-centrica una tecnologia. Per esserlo davvero, dovrebbe spostarsi dall’interazione uomo-macchina e concentrarsi su altro: il benessere per l’uomo per la società. Non sulla capacità di catturare la nostra attenzione e monetizzarla.
Nel 1971, in un saggio intitolato “Designing Organizations for an Information-Rich World”, il premio Nobel Herbert Simon scrisse una frase che oggi suona profetica: “La ricchezza di informazione crea povertà di attenzione.” Ecco, la tecnologia che chiamiamo umano-centrica è spesso progettata esattamente per rubarci quella risorsa sempre più scarsa. Chiamarla umano-centrica è, nel migliore dei casi, un’ingenuità. Nel peggiore, una bugia consapevole.
L’AI non toglie posti di lavoro
L’AI è una tecnologia, non un datore di lavoro. Tecnicamente non può creare lavoro e non può toglierlo.
È vero, in senso stretto. È anche un esercizio di retorica piuttosto raffinato.
Perché è altrettanto vero che molte applicazioni di AI nascono con un obiettivo preciso: ottimizzare processi, fisici o transazionali. Qualcuno l’ha chiamata la parte operaia del lavoro cognitivo.
E quando un progetto di AI viene presentato in azienda, spesso la prima slide che compare è quella del “FTE saving”: con questa applicazione, quante persone in meno ci servono per svolgere la medesima attività?
Goldman Sachs stima che l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno nel mondo sia esposto al rischio di automazione. In alcuni casi raccontati dalla stampa, reparti amministrativi sono passati da diverse decine di persone a una manciata di addetti in pochi mesi. Non più eccezioni isolate, ma casi sempre più frequenti.
L’AI non toglie posti di lavoro. Li tolgono le scelte di chi la usa. Ma se lo strumento è progettato per quello scopo, e il mercato premia chi taglia i costi, la distinzione diventa sottile fino a scomparire.
È come dire che il fucile non spara. È il dito sul grilletto che lo fa.
I nuovi posti di lavoro saranno più di quelli persi?
La trasformazione generata dalle nuove tecnologie – da sempre, e l’AI non sarà diversa – genera nuovi posti di lavoro. Alcuni li scopriremo solo a posteriori.
Nel Future of Jobs Report 2020, il World Economic Forum prevedeva che l’AI avrebbe eliminato 85 milioni di posti di lavoro entro il 2025, ma ne avrebbe creati 97 milioni di nuovi. McKinsey stima che entro il 2030 fino a 800 milioni di lavoratori nel mondo potrebbero dover cambiare ruolo o settore per effetto dell’automazione.
I conti, sulla carta, tornano. Anzi, sono in attivo.
Quello che raramente si sente dire è che questi numeri nascondono un problema di tempistica. La distruzione è rapida, quasi istantanea. La creazione è lenta. Graduale. E distribuita nel tempo.
Detto altrimenti: la perdita corre, la crescita cammina.
Nel breve periodo si genera un differenziale negativo di occupazione. Una forbice che si allarga prima di richiudersi – se mai si richiuderà. La rivoluzione industriale ci mise decenni a riassorbire i lavoratori tessili. L’automobile impiegò una generazione a creare più posti di quanti ne avesse distrutti tra maniscalchi e carrettieri.
E in quella forbice ci finiscono le persone. Non i numeri.
C’è poi un’altra possibilità, forse peggiore. In quell’intervallo drammatico fra il “già e non ancora” della riduzione dei posti di lavoro, potrebbe rimanere da fare solo il lavoro non automatizzabile ma in molti casi neppure bello. Niente di identificativo, niente di gratificante. Tutte quelle attività burocratiche senza alcun valore aggiunto che, per definizione, non sono automatizzabili: la firma che serve ancora in originale, la telefonata al cliente arrabbiato, il meeting che poteva essere una email ma che qualcuno ha deciso debba restare un meeting.
Il residuo. La parte che nessun algoritmo vuole.
Come osservano i più attenti, il vero problema non sono solo i numeri finali, ma il divario temporale tra i posti che spariscono in fretta e quelli che nascono molto più lentamente. Le transizioni storiche, per quanto positive nel lungo periodo, sono state segnate da sconvolgimenti sociali ed economici. La differenza, questa volta, è la velocità. E noi non siamo preparati.
Bastano programmi di formazione?
Servono nuove competenze. E la formazione è un passaggio imprescindibile. Questo è vero.
È anche la risposta più comoda. Quella che permette a tutti – governi, aziende, consulenti – di passare la palla al singolo individuo: riqualificati, impara, adattati.
Quello che spesso non si dice è che le nuove occupazioni che si creano non sono accessibili – attraverso programmi di formazione – alle persone che perdono quelle vecchie.
Uno studio sui programmi di riqualificazione americani (il National JTPA Study) ha mostrato che i partecipanti non hanno visto miglioramenti statisticamente significativi nei tassi di occupazione, nei guadagni o nella continuità lavorativa. E i pochi benefici rilevati sono stati di breve durata.
I ricercatori notano che i lavoratori spesso si riqualificano da un’occupazione a rischio automazione verso un’altra ugualmente a rischio. Un cambio di sedile sullo stesso treno.
È impensabile che una persona di 55 anni, che ha trascorso la sua vita a uno sportello bancario, possa diventare un data scientist o occuparsi di cybersecurity grazie a un corso di sei mesi. Non è cinismo, è aritmetica delle competenze.
La formazione è necessaria. Ma non è una bacchetta magica che trasforma chiunque in qualunque cosa. È una narrazione comoda per chi deve vendere transizioni indolori. E i numeri suggeriscono cautela: molte analisi sulle offerte di lavoro in ambito AI mostrano requisiti educativi ben sopra la media. Lauree avanzate, specializzazioni tecniche, competenze che non si acquisiscono in un corso di sei mesi.
C’è poi un altro problema, più sottile. Si parla sempre di formazione, quasi mai di comprensione. Ti insegnano a usare lo strumento, non a capirlo. Ti addestrano a premere i bottoni giusti, non a chiederti cosa succede quando li premi. È la differenza tra guidare un’auto e sapere come funziona il motore. Finché tutto va bene, non importa. Quando qualcosa si rompe, sei perso.
L’AI ci restituirà tempo
Vero. Poter demandare una gran parte del lavoro ad agenti artificiali potrebbe permetterci di avere più tempo da dedicare ad altro.
Ci avevano detto la stessa cosa della lavatrice. Del personal computer. Della email. Dello smartphone.
Quando la email si diffuse a metà anni ‘90, ci promisero un boom di produttività. Meno telefonate, meno fax, meno memo cartacei. Avremmo avuto più tempo per pensare, creare, innovare.
La promessa era meno burocrazia. Abbiamo ottenuto una catena infinita di palline da rincorrere. I dipendenti spendono quasi il 30% del loro tempo solo a gestire le email.
Il punto, però, è più profondo. Quel tempo non è nostro. Non ne possiamo disporre.
In questo strano mondo del lavoro, il datore di lavoro non compra la tua performance. È convinto di comprare il tuo tempo. Otto ore. Dieci ore. Dodici ore, se serve. E quel tempo risparmiato grazie all’AI verrà automaticamente riutilizzato per incrementare la produttività.
996: dalle 9 di mattina alle 9 di sera, 6 giorni a settimana. Settantadue ore. È il modello nato nelle aziende tech cinesi, dichiarato illegale dalla Corte Suprema cinese nel 2021, ma ancora molto presente nella pratica. E la stessa logica si sta facendo strada anche nella Silicon Valley: job description che normalizzano settimane da 60-70 ore, CEO che dichiarano apertamente di non credere nel work-life balance.
Perché proprio ora? Paolo Benanti, in un recente articolo su Il Sole 24 Ore, offre una chiave di lettura illuminante. Non è crisi finanziaria – i conti delle Big Tech sono eccellenti, valutazioni da trilioni di dollari. Non è nemmeno l’AI, almeno non direttamente. La chiave è demografica: si è esaurita la scarsità di laureati STEM. Più offerta, minore potere contrattuale. Le “coccole” del passato – mense gourmet, ferie illimitate, remote working garantito – lasciano il posto a orari più lunghi e presenza obbligatoria in sede. Si è passati, scrive Benanti, “senza soluzione di continuità, dal lavorare meglio al lavorare di più”.
Non è un’aberrazione culturale importata. È la logica conseguenza di un sistema che misura il valore in ore, non in risultati. E l’AI, invece di liberarci da questa logica, la accelera.
Meno persone saranno necessarie per compiere la stessa attività. Risultato: meno persone lavoreranno, lo stesso tempo, allo stesso modo. O peggio: le stesse persone lavoreranno di più, perché ora sono “più efficienti” e quindi possono gestire più task, più progetti, più clienti.
Vero, la tecnologia e ancor di più l’AI potrebbe restituirci tempo, ma quel tempo non ci appartiene, lo abbiamo ceduto in cambio di un salario. Il tempo liberato non ti viene restituito. Viene requisito.
Il paradosso di Jevons
“Un aumento dell’efficienza nell’uso di una risorsa porta a un incremento complessivo del suo consumo, anziché a una riduzione.”
C’è un economista inglese dell’Ottocento che aveva già capito tutto.
Si chiamava William Stanley Jevons, e nel 1865 – mentre l’Inghilterra si preoccupava di esaurire le riserve di carbone – osservò qualcosa di controintuitivo. Qualcosa che sfidava il buon senso comune.
All’epoca, molti pensavano che la soluzione fosse semplice: costruire motori a vapore più efficienti. Se consumi meno carbone per unità di lavoro, il carbone durerà più a lungo. Logico, no?
Jevons dimostrò che era esattamente il contrario.
Quando James Watt migliorò l’efficienza del motore a vapore, l’Inghilterra non consumò meno carbone. Ne consumò di più. Molto di più.
Il miglioramento tecnologico aveva reso il carbone più conveniente per unità di lavoro prodotto. E il mercato, di fronte a una risorsa più economica, fa sempre la stessa cosa: la consuma di più. Nuove industrie, nuove applicazioni, nuova domanda.
“È completamente sbagliato supporre che l’uso economico del combustibile equivalga a una diminuzione del consumo,” scrisse Jevons. “È vero esattamente il contrario.”
Si chiama paradosso di Jevons. E spiega perché ogni promessa di “tempo restituito” dalla tecnologia si trasforma puntualmente nel suo contrario.
Il carbone di Watt siamo noi.
L’AI non ci libera tempo – ci rende più efficienti, quindi più economici, quindi più consumabili. Il tempo che “risparmi” non torna a te. Torna al sistema che lo compra. E quel sistema, di fronte a una risorsa più efficiente, ne vuole di più. Sempre di più.
Gli strumenti digitali che dovevano aumentare la produttività molto spesso finiscono per produrre anche l’effetto opposto: invece di ridurre il carico, lo aumentano. Più richieste. Meno concentrazione. Nuovi task che prima non esistevano.
L’efficienza non libera. Crea appetito.
L’entusiasmo progressista con cui abbiamo sempre pensato che il digitale prima, e l’AI oggi, fossero strumenti per restituire tempo all’uomo si è dimostrato del tutto infondato.
Non è un complotto. Non c’è un cattivo da indicare. È una legge economica, vecchia di 160 anni, che si ripete.
How many more times…



Grazie, illuminante. Leggo spesso di questi argomenti e quando la lettura finisce, ho sempre la sensazione di un “non detto” che mi lascia sospesa. Questa volta invece, dopo la lettura, sento che è stato chiuso un cerchio.
David, sempre più analitico, sempre più profondo, ma ora cerco la porta da aprire. Rifletto su quello che hai condiviso, mi manca un 'forward', che ci permetta di prendere in mano il nostro destino... In ogni caso grazie.