Il mio primo giorno in Cisco risale a Settembre “1996”, dopo avere trascorso i quattro precedenti anni in SUN.
I famosi anni ‘90, anche se iniziavano a perdere smalto, ruggivano meno e si avvicinano a quelli 2000, che sarebbero stati tutti nuovi e così complessi. Era il periodo del grande hype di Internet, e del millenium bug, I media narravano di qualcosa mai accaduto prima e che avrebbe cambiato, chissà come, tutto: nasceva in quegli anni Dolly, il primo essere vivente clonato.
Alla radio andavano ancora fortissimo i Metallica, nonostante molti storcessero il naso per un sound sempre più “pulito”: Until It Sleeps, risulta ancora oggi nelle hits rock del 1996.
Avanti veloce. Venti anni dopo.
Ci lascia David Bowie, Di Caprio riesce finalmente a ottenere l’ambito oscar - gli ci sono voluti 22 anni i Metallica suonano ancora: Hardwired è il loro decimo disco.
Io sono stato molto fortunato, ho vissuto una carriera entusiasmante e piena di soddisfazioni, e penso sia giunto il momento di cambiare, di ridare ordine ed equilibrio alla mia vita e dopo 24 anni trascorsi in due aziende diverse ma simili, di vedere e fare finalmente qualcosa di diverso”.
Intorno a me molti non comprendono la mia scelta, qualcuno cerca di persuadermi, qualcuno mi invita a rifletterci. Ma, in fondo, sono giustificato da 50 candeline spente. “Ci sta penso io, dopo 20 anni…”
Vent’anni in un’azienda. Dai Metallica ai Metallica. Da Dolly al Nobel a Bob Dylan.
Una traiettoria speciale.
Ma anche abbastanza comune.
Per quelli della mia generazione non c’è nulla di straordinario. Sono certo anzi che riavvolgendo il nastro dei ricordi, e delle hits, in molti ci si possano rivedere e ritrovare.
Questo però era ieri. Prima. Una volta. Oggi no, è tutto diverso.
Le persone difficilmente spendono un tempo così lungo nella stessa azienda, non arrivano a venti anni, neanche a dieci, le statistiche parlano di circa 2 anni quale periodo medio nel quale si cambia lavoro.
C’è un nome per questo: Job Hopping. E una miriade di spiegoni più o meno sensati: dalla Yolo Generation al Quite Quitting ai nuovi modelli e ai nuovi stili di vita.
Non entro nel merito, cerco di non prendere una posizione ideologica, mi limito a dire che nonostante una fortunata carriera, in 20 anni di azienda ci sono stai alti e bassi, momenti in cui le cose non erano come avrei voluto che fossero, ma anche ( forse soprattutto) in quei momenti e in quelle esperienze a tratti negative, c’è stato spazio per imparare e occasioni per crescere.
Non ho mai pensato che il lavoro fosse la mia vita ma neppure che fosse una giostra da cui poter scendere ogni volta che le cose non giravano come avrei voluto. Questo principio per me vale ancora di più se si ricopre un ruolo manager, questo implica responsabilità verso l’imprenditore e/o gli azionisti ma soprattutto verso le tue persone. E come sempre, e vale per tutti, non è importante solo il perché si lascia, ma soprattuto il come lo si fa e il quando.
Ma ciò che penso io è poco importante e radicato nel mio passato, appartengo alla generazione X, là fuori c'è un mondo nuovo che richiede di essere compreso, interpretato e osservato con lenti nuove.
Ciò che invece credo sia importante come manager è chiederci “cosa ne pensiamo”. In maniera concreta. Come ci relazioniamo con un mondo di “prestatori temporanei di mente d’opera”?
Lo stigma, almeno a prima vista, pare stia andando via.
Una volta, presentarsi ad un colloquio con un nuovo datore di lavoro con molte esperienze brevi alle spalle nel CV non era particolarmente apprezzato, anzi oserei dire che spesso questo poteva rappresentare un blocco in partenza che non permetteva neppure di essere chiamati ad un colloquio.
Gli studiosi chiamavano in causa addirittura una sindrome: “the Hobo Syndrome”, la sindrome del vagabondo.
Oggi questo va sempre più scemando. In certi ambiti è la normalità, e non ci si fa più così tanto caso.
Solo che questo non risolve tutto.
Rimane ancora il pensiero che questo non vada bene, che una volta non era così. E che se non giuri amore eterno, e non rimani con noi per sempre, o almeno per tantissimo, qualcosa non va.
Permettetemi il salto quantico..ma qui penso subentri davvero un altro genere di sindrome. Qualcosa di meno scientifico ma che sicuramente conosciamo tutti: quella del partner, quella del “sì… ma non aveva ancora incontrato me”.
Quando inizi una relazione con qualcuno/a che in passato di esperienze ne ha avute tante, sempre brevi, sempre tormentate, che non hanno funzionato, che non hanno resistito alla prova del tempo, che non si sono avvicinate nemmeno lontanamente alla famosa crisi del settimo anno.
E questa cosa pur sapendola, pur notandola, non ti importa.
Perché appunto “non ha ancora incontrato te”.
Tu la/lo cambierai, con te sarà diverso…
Ovviamente sto enfatizzando il discorso. Ma trovo davvero che ci sia poca maturità nell’accettare un cambiamento così sostanziale nel mondo del lavoro. Poco cambiamento e molta voglia di reagire in difesa del passato.
Fondamentalmente è quanto abbiamo già visto su altri temi più o meno recenti.
Per esempio con gli orari di lavoro flessibili e lo smart working: con grande difficoltà nel passare dalla valutazione del tempo dietro una scrivania ai risultati e i ripetutti tentativi di riportare tutti in un modo o nell’altro in ufficio.
All’opposto con il lavoro ibrido: remotizzando il lavoro a casa e traslando in maniera acritica esperienze live in uno schermo, senza tenere conto delle differenze sostanziali che vi sono nel trovarsi faccia a faccia.
Nel 1992, la Fifa decise che fosse giunto davvero il momento di cambiare: d’ora in avanti, il portiere non avrebbe più potuto raccogliere la palla con le mani qualora fosse passata da un suo compagno con i piedi.
Per i più furbi, e i più distratti, la regola prevedeva anche un’altra clausola: qualora un giocatore si alzasse la palla con i piedi per colpirla poi di testa e passarla al portiere, anche in questo caso sarebbe stato fischiato un fallo, essendo questa una chiara elusione della regola…
Ecco, è più o meno quanto succede oggi.
Le regole sono cambiate. Non tutti le accettiamo, tantissimi faticano a farsene una ragione, alcuni provano comunque ad eludere il cambiamento, non essendovi in fondo regole formali né un arbitro a fischiare. Solo che come sempre serve a poco.
La regola del 1992 cambiò per sempre il calcio, tant’è che oggi la capacità del portiere di giocare il pallone con i piedi è una competenza fondamentale.
La morale come sempre è banale ed è la stessa: non puoi arrestare il cambiamento. Puoi nasconderti, ignorarlo, ma prima o poi se non lo affronti ne sarai travolto.
Serve qualcosa di diverso di fronte a ciò che di diverso si presenta nel nostro mondo.
Anche in azienda. Anche con il “job hopping”, o il legittimo diritto e la voglia di fare più esperienze lavorative possibili, qualsiasi sia il motivo e senza trincerarsi rispetto alla nostra visione di un mondo che forse non esiste più.
Il primo passo da fare credo sia quello di uscire dalle generalizzazioni: non ci sono “i giovani che ormai cambiano continuamente lavoro…”
Ci sono giovani uomini e giovani donne che hanno un rapporto con il lavoro, storie alle spalle e progetti di vita molto diversi tra loro, diverso è chi vive nelle grandi città e chi in provincia, chi a 30 anni e single e vive con i genitori o divide un appartamento con un coinquilino e chi invece alla stessa età ha un mutuo e una famiglia e soprattuto da chi possiede oggi competenze ed opera in settori in cui l’offerta è ampiamente superiore alla domanda, e chi invece no.
Oggi faccio colloqui a ragazzi e ragazze di talento che in 5 anni di lavoro hanno 4-5 posti di lavoro alle spalle con una permanenza media in azienda a volte inferiore all’anno.
Non solo li intervisto, cosa che non avrei fatto vent’anni fa, ma cerco anche di portarli a bordo se trovo in loro quelle competenze di cui ho bisogno oggi e un'aderenza valoriale e culturale al nostro modello di impresa.
Non smetto di investire sui nostri tratti distintivi ma lo faccio senza la presunzione di pensare che una volta con noi ci sposeranno per sempre o per un lungo periodo.
Provo a spostare semplicemente la mia attenzione e la mia azione manageriale differenziando le persone con cui creare valore a lungo termine attraverso la fidelizzazione a quelle invece da cui distillare valore nel più breve tempo possibile nel miglior interesse dell’azienda e dei clienti. Modifico e calibro le mie politiche HR, le mie azioni e i miei investimenti in funzione della persona con cui mi relaziono senza applicare un unico modello a tutta la mia popolazione aziendale, senza vivere come un tradimento e con troppo dispiacere, il momento dell’abbandono.
Oggi credo sia richiesto al manager un approccio molto più granulare nella gestione delle risorse rispetto al passato, proprio per comprendere meglio le diverse motivazioni individuali in una situazione fortemente dinamica sia dal punto di vista delle scelte personali dei collaboratori che del mondo del lavoro.
Ormai questo è il gioco, questo il mondo.
Forse…
I Metallica hanno da poco pubblicato il loro undicesimo album in studio, 72 Seasons, ma alla radio il rock che passano è quello dei Maneskin.
E il lavoro è eterno finché dura.