Le domande che non ti ho fatto...
Le domande che i candidati non pongono in fase di colloquio (ma che io vorrei mi venissero poste).
Negli ultimi vent’anni credo di aver parlato con circa 300 candidati. Ho posto domande standard e altre più curiose, cercato di capire qualcosa in più e andare oltre il curriculum e l’esperienza formale. Alla fine, ogni volta, ho pronunciato la fatidica frase: “bene, c’è qualche domanda che mi vorrebbe fare, qualcosa che vorrebbe approfondire ?”
A questo punto, in alcuni casi, è piombato il silenzio. Sguardi bassi, nel vuoto. Altre volte espressioni sin troppo sicure con cui, sorridendo, mi veniva detto “no, no, tutto molto chiaro, grazie! ”. Molte volte invece, le domande arrivavano, ma sempre ordinate, precise, canoniche, a volte un po’ banali, sicuramente poco interessanti. Di circostanza come le strette di mano e i saluti con cui ci si congedava.
Tra ansia e strategia
Mi rendo conto che le “domande all’azienda” siano una questione delicata. In un momento così critico, già ottenere un colloquio è per molti un miraggio, superarlo e venire assunti forse e’ troppo importante per essere disinvolti o peggio ancora eccessivamente spontanei.
Nel mio caso però devo ammettere esiste un’aggravante: avendo ricoperto quasi sempre posizioni apicali, ad eccezione dei colloqui per le prime linee, gli incontri con me si limitavano spesso ad una pura formalità, un passaggio a cui accedevano coloro che erano già stati selezionati, ritenuti idonei; la classica chiacchierata col Ceo, quella in cui l’unica cosa importante era giusto non commettere errori e dimostrarsi entusiasti e motivati per l’ingresso in azienda.
Ma, se in questa situazione specifica i candidati non erano particolarmente propensi a lasciarsi andare troppo, ho scoperto che non era poi cosi’ diverso anche quando la stessa domanda finale - “vuole sapere qualcosa?” veniva posta, e viene posta, negli step iniziali. È troppo facile immaginare, e me lo conferma chi si occupa di selezione, che domande interessanti e autentiche sono merce davvero rara.
Personalmente è stato per me sempre motivo di rammarico, ma lo considero comprensibile.
Come spesso accade c’è molta distanza tra la teoria e la pratica, tra i manifesti e la vita sul campo. Statistiche, ricerche, dossier, ci ricordano continuamente che adesso i candidati, specie le nuove generazioni, inseguono i valori. Ma nella realtà è ancora spesso una partita a scacchi da giocare meticolosamente per ottenere in cambio un’assunzione.
É un po’ quello che succede con quei test a risposta multipla. Quelli che assegnano zero per ogni domanda a cui non viene data risposta, e -1 per ogni risposta sbagliata: conviene rischiare?
Vista la posta in palio, ripeto, è un atteggiamento comprensibile, solo che non è particolarmente piacevole e alla lunga non credo neanche sia così efficace, nè per le aziende, né tanto meno per i candidati.
Varianti contro varianti e il bello dell’uscire dalla teoria
Negli scacchi (tornati ora molto di moda), dove anche i non addetti al gioco sanno, esistono combinazioni infinite, si parla spesso di varianti: sequenze di mosse, teorizzate, prestabilite, che portano a un qualche tipo di vantaggio. Una cosa del tipo: se lui fa questa mossa, io rispondo in questo modo, e se lui po’ fa quest’altra mossa, a quel punto io…
Mi pare che, complice anche la digitalizzazione, l’abbondanza di informazione e la sempre crescente letteratura in materia, anche in sede di colloquio siamo in una situazione di questo tipo.
Da parte delle aziende e dei selezionatori, domande stravaganti e apparentemente senza senso, come “quante pizze vengono consumate in una tale città?”, servono appunto ad uscire dalla teoria.
Da parte dei candidati ormai esistono vere e proprie guide per ribattere con logica e originalità. Ne ho trovate molte che preparano a come rispondere ad ogni tipo di possibile domanda ma poche che suggeriscono invece quali domande porre, e anche in questi rari casi, tutto molto scontato…
Cercando qualche spunto per questo articolo mi ha colpito ad esempio un articolo di Business Insider sul tema.
Nell’articolo vengono illustrate alcune domande che potrebbero sorgere in fase di intervista, ad esempio “ Puoi darci una ragione per cui a qualcuno potrebbe non piacere lavorare con te?” E poi viene spiegato il motivo per cui una certa domanda viene posta ma anche e soprattutto qual è il trabocchetto che si cela dietro, e come rispondere per superarla indenni.
Stando così le cose, il rischio di rimanere poi delusi è molto alto. Per le aziende, certo, ma anche per i candidati che potrebbero ritrovarsi in ambienti tutt’altro che congeniali.
Le domande che spero un giorno di ricevere
Non so quanto questa situazione possa cambiare, io continuo ad essere fiducioso, mi piacerebbe ritrovarmi un giorno di fronte a persone capaci di uscire dalle varianti. Incontrare candidati che si prendessero il tempo di capire con chi stanno parlando e quale avventura stanno per abbracciare.
In un elenco non esaustivo, provo a riportare le domande che ogni volta spero di ricevere e che non mi sono mai state poste:
Come misurate il vostro carbon footprint ?
Qual e' la vostra politica di flessibilita' del lavoro ?
Qual e' la percentuale di donne nel vostro board e nel management team ?
Qual e' stato il turnover del personale negli ultimi 3 anni ?
Quali sono i KPI con cui misurate le performance dei vostri manager ?
Qual e' il vostro Span of Control ?
Quanto investite nella formazione dei vostri collaboratori ?
Quanto investite in ricerca e sviluppo ?
Come declinate il vostro impatto sociale e che tipo di contributo vi aspettate da parte dei vostri collaboratori ?
Quale direzione è presumibile che prenda l’azienda nei prossimi tre anni ?
Sono solo tracce, e’ semplicemente un invito, un invito a correre qualche rischio, il rischio anche di indispettire il proprio interlocutore ma che offre pero’ - se non altro - il grande vantaggio di farvi da subito un’idea di con chi avrete a che fare e in quale contesto vi troverete ad operare.