Mascherine senza volti, riunioni senza cuore, luoghi senza anima
Il lavoro, il business e le relazioni ai tempi del post Covid
Ieri ho incontrato una persona che conosco da tempo, una conoscenza non profonda, di quelle appena sopra il “ciao” ma ampiamente al di sotto del “vediamoci una sera a cena”
Ma cio’ che ha reso questo incontro insolito e diverso da tutti i precedenti e’ stato che per via delle mascherine questa volta ci siamo forzatamente guardati a lungo negli occhi. Potere della mascherina.
Ti conosco, Mascherina! E’ un film del 1943 diretto da Eduardo De Filippo, con Totò protagonista. Ma a me più di tutto viene in mente lo sguardo di mia madre quando pur non avendo solidi appigli tentavo di argomentare e giustificare la marachella di turno.
“Ti conosco, mascherina!” mi diceva.
E lì capivo che lei aveva capito. Che era tempo di ammettere, scusarmi, non dire più niente.
Mia madre, come ogni madre, sapeva leggere occhi ed espressioni.
In maniera meno sapiente di una mamma con il proprio figlio sappiamo farlo tutti noi. Abbiamo imparato a decifrare espressioni e tutto ciò che si può annoverare nel regno del “non detto”.
Non è un caso che molti fatichino in un mondo digitale dove manca proprio il para-verbale e le sensazioni che due corpi sanno trasmettere quando sono fisicamente presenti in presenza.
Ma questo era prima. Oggi siamo in una società molto diversa, stravolta dalle tragedie della pandemia e da una serie di conseguenze che a cascata hanno modificato e modificheranno il nostro modo di vivere e lavorare.
Il (nuovo) potere di uno sguardo
Prima della pandemia non ho mai dovuto (fortunatamente) in vita mia indossare una mascherina. Fatta eccezione per qualche esperienza in Asia e per qualche turista asiatico in Italia, la mascherina chirurgica l’ho vista indossare quasi esclusivamente da persone con problemi di salute.
Il mio rapporto più intenso con una mascherina si è manifestato in due specifiche occasioni, una molto banale e ripetitiva, dal dentista, l'altro con il chirurgo e l' anestesista in occasione dei 4 interventi chirurgici subiti in 3 anni tra tibia e ginocchio.
Ecco, soprattutto nel secondo caso, mi viene in mente la forza di quello sguardo. Quel viso bendato, coperto dalla mascherina, in cui tutti gli altri tratti erano nascosti ad eccezione degli occhi, quegli occhi in cui cercavo disperatamente rassicurazione e conforto. Sguardi che in quei momenti mi pareva potessero dire più di mille parole.
Occhi che, anche in contesti meno drammatici ma altrettanto importanti, nella vita, in azienda e nel lavoro, diventano il banco di prova: “guardami negli occhi;. Quasi un'ultima chiamata. Una frase che pronunci o che ascolti quando la discussione sale di livello, quando ci si deve guardare dentro e dimostrare la propria onestà o confermare il proprio impegno. Uno sguardo diretto che vale più di tante strette di mano.
Oggi coperti dalle mascherine abbiamo ripreso forzatamente a doverci guardare negli occhi, forse stiamo recuperando una vecchia e buona abitudine, ci eravamo forse disabituati a prestare attenzione alle sfumature espressive, soprattutto in questo periodo di incontri intermediati esclusivamente da una piattaforma tecnologica in cui sfumarsi all’altro diventa fin troppo facile.
Le (nuove) maschere
Noto un fenomeno strano, per certi versi paradossale, legato alla remotizzazione forzata del lavoro alla quale tutti siamo andati incontro e che qualcuno continua ad ostinarsi a chiamarlo smartworking. In questo caso collegati dalle nostre abitazioni il guardarsi negli occhi diventa più difficile mentre invece le mascherine perdono totalmente la propria’ utilita’.
Mi riferisco a quella triste sensazione di parlare ad uno schermo. Con un interlocutore che c’è ma che non c’è. Parlare ad una schermata nera o a una figurina che il nostro compagno di discussione imposta quando la webcam è spenta.
“Tolgo la webcam così guadagniamo banda” è la frase che precipita i discorsi in monologhi poco convincenti e poco interessanti.
“Mi senti?” è la domanda che tenta di riportare al cuore del discorso ma è più facile che interrompa ancor di più un ritmo che già stentava a decollare.
E poi c’è il capitolo “audio”.
Quando i partecipanti ad una riunione lo disattivano – cosa che tra l’altro gli esperti consigliano per non disturbare la conversazione – parlare è surreale. Come una confessione in chiesa, in cui non c’è neanche il prete.
Quando i partecipanti lo tengono invece consapevolmente attivo è il caos, altre volte quando avviene in modo inconsapevole ti rendi conto che stanno facendo completamente altro e quel rumore delle dita che battono sulla tastiera che accompagna molte di queste riunioni provoca un disturbo ben più ampio del rumore stesso che genera.
E lì vorresti davvero abbandonare la scaletta della riunione e dirlo: “Ti conosco, mascherina!”
Dai posti di lavoro ai luoghi del lavoro
Mi auguro che potremo presto abbandonare le mascherine ed il lavoro forzato da casa per tornare a fare smartworking vero, prestando particolare attenzione pero’ in questo momento di over-entusiamo digitale a non rinunciare ai luoghi, alla socialità e soprattutto agli sguardi.
I luoghi di lavoro dovranno trasformarsi da luoghi in cui dover andare a lavorare a luoghi in cui scegliere autonomamente di andare a svolgere una parte della propria attività lavorativa in funzione dei propri obiettivi e di quelli dell'azienda.
Uffici che non dovranno più essere come cattedrali o centri commerciali, spazi totalizzanti in cui vivere per 8-10 ore al giorno e spendere tutte le dimensioni della propria vita, ma luoghi vivi, luoghi che respirano, luoghi veri di aggregazione, in cui scegliere di passare del tempo per lavorare, per dialogare, per costruire relazioni e soprattutto per riprendere a guardarsi negli occhi.
Scelta verso dovere, outcome verso ore di lavoro, fiducia verso controllo, forse e’ questa la vera rivoluzione del lavoro che ci attende nel post-Covid e che mette alla prova una nuova o rinnovata classe manageriale per guidarla e gestirla.