Se salvare tutto significa non ricordare niente
Dal palazzo della memoria al cloud storage: storia di un backup (forse) fallito
"Se potessi cancellarmi dalla tua memoria, lo faresti?" Nel 2004, quando uscì "Se mi lasci ti cancello" (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), questa domanda sembrava pura fantascienza. L'idea di poter selettivamente eliminare i ricordi era affascinante ma irrealizzabile. Vent'anni dopo, con l'avvento della "brain computer interface", potrebbe non essere più così lontana dalla realtà.
"Should I stay or should I go?"
"Should I stay or should I go?" cantavano i Clash, e oggi mi ritrovo a pormi la stessa domanda pensando al nostro rapporto con la memoria nell'era digitale. Dovremmo delegare completamente i nostri ricordi alla tecnologia o trovare un equilibrio più umano?
È un tema che mi incuriosisce molto e su cui mi è capitato di riflettere in modo più approfondito quando lo scorso maggio Alessandra Colonna mi ha invitato a parlare della relazione tra memoria e intelligenza artificiale al convegno "Il filo della memoria", un evento organizzato da Bridge Partner. Un evento che mi ha colpito per la sua eleganza, la qualità dei contenuti e dei relatori. Tra gli altri ho avuto il piacere di conoscere ed ascoltare le testimonianze di relatori come Andrea Muzii, campione del mondo di memoria e Pierdante Piccioni, la cui storia incredibile ha ispirato la famosa serie televisiva DOC.
C'era una volta la memoria
Preparandomi all'evento, mi sono confrontato con esperti di vari campi - una neuroscienziata, una psicologa, un artista, un matematico e un filosofo - e come spesso accade, sono emerso con più domande che risposte.
Partiamo da lontano: la nostra memoria è un insieme di memorie che ha a che vedere con tante nostre facoltà, come la percezione, l'emozione, l'apprendimento, la coscienza. Per comprenderla appieno, occorre averne una visione complessiva, essendo di per sé complessa e sfaccettata. Non si tratta solo di un archivio potenzialmente infinito di dati e della possibile correlazione tra loro - non può essere ridotta a tutto questo.
Siamo partiti dalla relazione tra emozioni e memoria, Il nostro archivio è situato nel cervello e più precisamente sono state individuate due strutture anatomiche, ippocampo ed amigdala a cui competono principalmente la funzione di memorizzare esperienze, dati, nomi, emozioni, informazioni, sensazioni, e tutto quello che ci caratterizza nell’essere quello che siamo, siamo stati e diventeremo. Un evento che suscita in noi una forte reazione emotiva è un evento che resterà impresso potenzialmente per sempre.
Emozioni ed esperienze che appartengono all'uomo e non possono appartenere a un agente artificiale.
Mi sono imbattuto in storie affascinanti su come l'umanità ha gestito i ricordi prima dell'era digitale. Pensiamo ai mnemonici delle mani, le mani prima di diventare estensioni dei nostri device, erano semplicemente strumenti per lanciare, afferrare o sollevare, circa milleduecento anni fa abbiamo iniziato ad usarle come deposito portatile di conoscenza. Il palmo e le dita diventavano una mappa dove "incidere" invisibilmente informazioni di ogni tipo. Chi d'altronde non ha mai usato questo espediente durante un compito in classe?
Altrettanto affascinante la storia dei "loci" (plurale del termine latino *locus*, che significa "luogo"), anche chiamata "palazzo della memoria". Una tecnica mnemonica introdotta in antichi trattati di retorica greci e romani. Un metodo nel quale gli elementi da ricordare vengono associati a luoghi fisici. Per rammentare in un certo ordine vari contenuti si ricorre alla memorizzazione di relazioni spaziali.
Nel XX secolo, la studiosa Frances Yates1 ha riportato alla luce questa tradizione antica quanto sorprendente. Immaginate di attraversare mentalmente un edificio familiare - la vostra casa, magari - e in ogni stanza depositare un ricordo, un'informazione da conservare. I maestri di questa tecnica arrivavano a memorizzare quantità enormi di informazioni, creando vere e proprie "mappe mentali" dove ogni angolo, ogni mobile, persino ogni ombra poteva diventare un gancio per la memoria.
Note e ricordi
Non è solo questione di suoni - è un intero mondo di esperienze che riemerge. La canzone che passava alla radio durante quel viaggio in auto, la playlist di quell'estate particolare, il brano che suonava quando abbiamo ricevuto quella notizia importante. Anche quando la memoria sembra abbandonarci, come nel caso dell'Alzheimer, la musica rimane.
Penso alla storia di Carol Howard2, una biologa marina che negli ultimi stadi della sua malattia spesso non riusciva a riconoscere suo marito, eppure poteva ancora cantare perfettamente ogni parola delle canzoni di Simon & Garfunkel degli anni '60. È come se la natura avesse creato il suo personale "palazzo della memoria", codificando i nostri ricordi più preziosi non in luoghi fisici, ma in melodie ed emozioni. I neuroscienziati lo confermano: la musica può aprire porte dimenticate sulla memoria, può portarci indietro nel tempo, può attivare il nostro cervello in modi che nessun altro stimolo riesce a fare.
Il paradosso della memoria digitale
Come scriveva Proust, "Troviamo di tutto nella nostra memoria: è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso."
Ma cosa succede quando questa farmacia diventa digitale? Quando ogni ricordo è perfettamente catalogato, etichettato, sempre accessibile?
Oggi forse potremmo non dover memorizzare più nulla, tutte le informazioni che ci servono sono a portata di un click. Questo mi ha fatto pensare a un esperimento interessante: in un museo della Nuova Zelanda, hanno scoperto che le persone a cui veniva chiesto di fotografare degli oggetti ricordavano molti meno dettagli rispetto a chi li osservava semplicemente. L'atto stesso di registrare stava diventando più importante dell'esperienza da ricordare.
Pensate a cosa avviene oggi ai concerti: molti vivono l'esperienza attraverso la lente di uno smartphone, il momento viene filtrato e genera un ricordo che viene privato almeno in parte dell'esperienza e dell'emozione legata al momento stesso. È solo una registrazione uguale ad altre ventimila, tutte uguali se non forse per un cambio di prospettiva.
È uno dei grandi paradossi della nostra era: ricordare è diventato così facile, così poco costoso e così pesantemente esternalizzato che non è più necessario ricordare nulla.
Ricordare è diventato così facile e così poco costoso che non è più necessario ricordare nulla.
Ma c'è qualcosa di ancora più surreale. Mi è capitato di pensare a tutti quei dati su cui si allenano ChatGPT, Claude e simili, alle diffuse fake news: è come se stessimo costruendo una sorta di memoria collettiva basandoci su un gigantesco album di Instagram. Una versione patinata della realtà, filtrata, ritoccata e modificata fino all'inverosimile.
Messaggi al futuro
La memoria fa pensare al passato, ma in realtà ha molto più a che fare con il futuro. Un ricercatore, Robert Jacobs, suggerisce di pensare alla memoria come a un messaggio che inviamo al nostro sé futuro. Mi piace questa immagine.
Ma che tipo di messaggi stiamo inviando quando deleghiamo tutto alla tecnologia? E soprattutto, il nostro sé futuro sarà in grado di leggerli?
Non è solo una questione personale. Le nostre città sono piene di messaggi dal passato: monumenti, musei, edifici storici - sono tutti messaggi che le generazioni precedenti hanno voluto lasciarci. Quando cammino per il centro di una città antica, ogni pietra racconta una storia, ogni angolo custodisce una memoria collettiva.
Mi chiedo: nell'era dell'AI, che tipo di messaggi stiamo lasciando al futuro? Le nostre memorie digitali sono più precise, più dettagliate, ma forse anche più fragili?
Un monumento può resistere per secoli, ma un formato digitale può diventare obsoleto in pochi anni. Una statua racconta una storia anche se non ne conosciamo tutti i dettagli, ma un hard disk pieno di dati senza contesto è solo un oggetto muto.
Cosa dobbiamo aspettarci?
Tante domande, poche risposte, una considerazione e il suggerimento di un saggio da leggere sulle più recenti conquiste della ricerca neurotecnologica e del potenziamento cognitivo: "Fino a che chip non ci separi" di Nicoletta Francesca Prandi.
Forse dovremmo riflettere un po' di più su come stiamo ridefinendo il concetto stesso di memoria e di come stiamo assorbendo passivamente tecnologia senza fermarci qualche istante a riflettere sulle potenziali implicazioni. Perché in fondo, non stiamo parlando solo di ricordi o di informazioni. La memoria, sia personale che collettiva, è la nostra identità. Quando deleghiamo troppo alla tecnologia, non stiamo solo esternalizzando informazioni - stiamo cedendo pezzi della nostra storia, del nostro modo di vedere e di ricordare il mondo.
Perché alla fine, non è solo questione di ricordare più informazioni - è questione di ricordare chi siamo.
E, nonostante le promesse dell'AI, forse aveva ragione Bob Dylan: "Take care of all your memories, for you cannot relive them."
C'è da pensarci. Siamo convinti che con la tecnologia possiamo conservare tutto, invece non stiamo conservando nulla.